Gli autori del libro Che cosa sa fare l’Italia (Anna Giunta, professore ordinario di Politica economica al Dipartimento di Economia dell’Università Roma Tre e direttore del Centro di Ricerche Economiche e Sociali Manlio Rossi-Doria, e di Salvatore Rossi, direttore generale della Banca d’Italia e presidente dell’Istituto di Vigilanza sulle Assicurazioni) propongono di rilanciare il saper fare degli italiani, riscoprendolo come asset trainante e fondamentale dell’economia italiana, anche prima dell’Unità. Soprattutto in un periodo di appannamento del genius loci, per gli autori è importante ricordare che “un paese è ciò che sa fare”. Nel prologo rilevano come, nei secoli, gli italiani abbiano saputo per lunghi periodi eccellere nei campi della produzione, sia artigianale sia industriale, e del commercio in modo quasi unico, anche nei confronti degli altri popoli europei. Periodi seguiti da altri, anche lunghi, di ripiego produttivo, che hanno comportato forte impoverimento economico e sociale, dimostrando che la produzione è l’asse trainante dell’economia di qualsiasi paese moderno. Nei primi due capitoli, L’importanza del saper fare per una nazione e Come è cambiata l’economia italiana nel tempo, gli autori compiono un excursus storico molto importante e contestualmente compilano un catalogo essenziale dei prodotti che hanno consentito l’eccellere produttivo e economico del paese. Dal Rinascimento, in cui l’eccellenza della produzione, in qualsiasi campo e non solamente in quello artistico, e del commercio italiani fece scuola al resto d’Europa, a quelle che gli autori individuano come momenti storicamente di punta della nostra economia: gli anni dal 1893 alla prima guerra mondiale, in cui il tasso medio annuo di crescita del PIL raddoppiò rispetto ai decenni precedenti grazie alla ripresa della nostra capacità produttiva e al rapidissimo adeguamento di nostri prodotti strategici, come treni e navi, ai maggiori livelli qualitativi di paesi come Gran Bretagna e Germania, e alla creazione della rete idroelettrica migliore del mondo; e la più nota crescita post bellica dei decenni ’50 e ’60, con, anche in questo caso, rapido adeguamento di prodotti come elettrodomestici, automobili e altri veicoli, abbigliamento, ai più elevati livelli di qualità, da cui scaturì il loro successo commerciale. Nei cinque capitoli successivi gli autori compiono un’analisi accurata della situazione attuale, rilevando aspetti di criticità non ascrivibili soltanto alla crisi finanziaria, alla globalizzazione dei mercati, all’entrata in scena di attori potentissimi come i paesi asiatici, ma peculiari del nostro paese e che in altri momenti hanno costituito elementi di forza, come le imprese familiari, e il non aver saputo cogliere con efficacia l’occasione della Ict, l’Information and communication technology. Ma fattori negativi sono anche i contrasti, per lo più ideologici, tra industria e servizi privati da una parte e pubblica amministrazione dall’altra, la cui coesistenza nel primo dopoguerra è stata, secondo gli autori, motore fondamentale della ripresa, soprattutto per l’aspetto occupazionale.
“Fare cose vuol dire inventare e realizzare valore”. Questo lo può fare lo Stato, lo possono fare gli Enti locali, lo possono fare le singole famiglie, oggi lo possono fare anche le Onlus. Tuttavia, è fuori discussione che la parte principale della produzione nazionale continua a originare dalle imprese, e nella decisione di concentrarsi sull’offerta produttiva e sui suoi protagonisti sta la motivazione principale del libro, proponendosi di suscitare attese e azioni favorevoli e di contribuire alla loro realizzazione.
Carlo Marchetti
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