La bussola che non si può perdere

La bussola che non si può perdere

La bussola che non si può perdere

 

Sergio Dalla Val
psicanalista, cifrematico, presidente dell’Associazione culturale Progetto Emilia Romagna.

 

Occorrevano tutta la sobrietà, la finezza, la serietà dell’autore, Paolo Moscatti, della curatrice, Anna Spadafora, e della casa editrice Spirali per mettere un titolo cosi fine al libro La mia bussola. L’amicizia, la famiglia, l’impresa (Spirali), che ogni direttore commerciale avrebbe lanciato, forse in modo roboante, come “il più importante, imperdibile, convincente, manuale per divenire imprenditori nel terzo millennio”. Ma non avrebbe avuto torto, perché il libro è anche questo: come una bussola, è un prezioso strumento per chi si accosta all’imprenditoria e trova deludenti le lezioni teoriche delle scuole di business, e anche per chi nell’impresa lavora da anni, ma vuole mettere in questione e arricchire le proprie idee, prima che limitino la riuscita della propria attività.

Infatti, niente come le proprie idee può frenare, paralizzare, distruggere un’impresa. E per proprie idee intendo i ricordi, i pregiudizi, le credenze dell’imprenditore, ma anche dei manager, dei consulenti, dei soci, che fanno sistema, che diventano senso comune dell’azienda e poi della città; proprie idee sono quelle che Moscatti chiama il ragionare “di pancia”, che porta all’omologazione. Scrive infatti: “L’omologazione si ottiene dando alla comunità quello che la maggioranza delle persone chiede ‘di pancia’, senza la minima riflessione” e aggiunge: “Il pensiero si omologa con la ricerca dell’audience, si omologa con i social, con qualsiasi mezzo in grado di raggiungere un elevato numero di persone dando loro il sollievo di non pensare, del pensiero preconfezionato, già pronto, da fare proprio”. Annotazione essenziale, cui potremmo aggiungere che l’omologazione più tragica è l’omologazione con se stessi, l’attenersi “senza la minima riflessione”, come dice, alle proprie credenze. “Alimentare il dubbio è faticoso”, scrive, e questo spiega allora l’importanza che Moscatti ha da sempre attribuito alla cultura e alla formazione, che l’ha spinto a finanziare corsi e a contribuire alla rivista “La città del secondo rinascimento”: “Cominciai, seppur saltuariamente, a sollecitare gli incontri con economisti, filosofi, scrittori, ma anche manager, che dessero testimonianza del loro itinerario di ricerca e di pensiero”. Manager che testimoniavano del loro viaggio come ora testimonia lui a noi. “D’altra parte,” continua, “come potevamo conoscere le esigenze del mercato senza l’apertura intellettuale verso ragionamenti, questioni e approfondimenti che non riguardavano esclusivamente i nostri flussi di processo?”.

Ma a Moscatti non sfugge che la cultura non è la Kultur, non sono le usanze locali o l’erudizione. La cultura è formazione e invenzione, si struttura nella parola e ha la sua condizione nell’ascolto. L’ascolto è imprescindibile nell’impresa e nei suoi dispositivi, per esempio nella gestione dei clienti: “Ci vogliono anni per costruire un’immagine di servizio che sia a un adeguato livello tecnico, e contemporaneamente, di grande attenzione verso le esigenze e le urgenze dei clienti. E in questa attenzione, la parte del leone la fanno l’ascolto e la parola: parlare e ascoltare – anziché limitarsi a vedere con gli occhi del pregiudizio – è un’arte che non si impara mai abbastanza”. Parlare e ascoltare: come dire meglio le prerogative del dispositivo di brainworking, della direzione intellettuale dell’impresa?

Nel luogo comune, oggi l’impresa non naviga in acque favorevoli: “Persiste e continua a essere propagandato un sentimento antindustriale che se non cambierà porterà inevitabilmente a una decrescita molto infelice”, scrive Moscatti. Questo sentimento antindustriale partecipa all’odium sui che pervade la provincia Italia e la provincia Europa schierate contro l’occidente, contro l’impresa, contro la democrazia, contro la modernità, contro la parola libera. Questo odium sui è nutrito dal multipolarismo e dal multiculturalismo ed è sostenuto dalle dittature sanitaria, giudiziaria, tecnologica e mediatica che attraversano i vari paesi.

Ma nessuna dittatura può togliere la cura, il diritto, la tecnica e la comunicazione civili, dunque il secondo rinascimento in atto nel pianeta. Questo rinascimento della parola si esprime anche attraverso la dissidenza degli ucraini, degli uiguri, dei cubani, dei venezuelani, degli abitanti di Hong Kong e di Teheran, degli stessi russi e bielorussi che non accettano la confisca della libertà della parola, dell’impresa, della vita civile. Questa dissidenza intellettuale non si sottomette al principio della paura e dell’invidia, che è il principio del nullismo e della morte, non si rassegna al fallimento, dunque non si mortifica nella rassegnazione, nella rinuncia, non si consegna all’alternativa, non issa la bandiera bianca della resa.

A questo proposito, interessantissime sono le pagine in cui Moscatti racconta come, dopo mesi di trattative che stavano portando alla vendita della società a una multinazionale tedesca, lui si rifiutò di firmare questa operazione, che sarebbe stata economicamente vantaggiosa in un momento di grandi difficoltà. Moscatti non era caduto nella tentazione sostanziale, nella trappola in nome della salvezza, cioè non aveva ceduto alla paura, paura del fallimento, paura della fine. Scrive: “Non è mai esistito un piano B. La riuscita era ed è obbligatoria. Non ci sono alternative alla riuscita”. Per l’imprenditore, per il capitano, per ciascun brainworker la fede nella riuscita non può venire meno, è senza alternative: questa è la bussola della vita, non la bussola della pena, che non può divenire il metro di valore. Cosa non si fa, quale pena non si assume per salvarsi, per salvare l’azienda, per salvare il potere? Quali sono le deleghe che vengono compiute per mantenere l’impresa come esente dalla questione intellettuale, come vincolata dal principio della paura? Il principio della paura utilizza il fantasma di padronanza per gestire la vita senza la parola, senza i dispositivi di parola. È questo il modo più comune di perdere la bussola, ovvero di perdere l’istanza del valore, l’istanza della qualità della vita.

Nessuna riuscita senza la bussola della vita.  Occorre la direzione per non girare in tondo e a vuoto, per non compiere visioni dell’avvenire guardandosi indietro o alle spalle, divenendo visionari ovvero passatisti, che nulla ascoltano, perciò nulla intendono, perché impegnati nella visione. La memoria è in atto, non è il ricordo del passato: solo così la riuscita non è ideale, non è la realizzazione della propria volontà, apocalittica o messianica, come volontà dell’Altro.

La riuscita che non sottostà all’idea che ci facciamo, è pragmatica, non esige la volontà ma il cervello come dispositivo, il cervello come bussola. Un’azienda senza cervello, senza i dispositivi intellettuali, è un’impresa allo sbando, senza bussola e senza direzione, un’impresa che sopravvive di rendita senza arte e invenzione. Moscatti indica che spetta all’imprenditore attirare, trattenere, valorizzare i talenti, “facendo in modo che la crescita dell’azienda generi opportunità per ciascuno”. Come è stato per l’ingresso dei figli in azienda, avvenuto non cooptandoli nell’esistente, ma inventando assieme a loro, quasi su loro istanza, nuove strutture aziendali e nuovi dispositivi. Questi nuovi dispositivi “di parola e di ascolto” sono il cervello dell’impresa.

In quest’epoca molti giovani sembrano smarrire la via, addirittura deragliare, giocando con l’idea del nulla e con l’idea di morte. Ma anche le inscenazioni del radicalismo e del purismo rilasciano asterischi che, traendo ad altre costellazioni linguistiche, comportano altre strade, altri palinsesti. Nei dispositivi della parola, la bussola non può perdersi. Lo stesso enunciato: “Mi sono perso” è un asterisco del viaggio, del nomadismo intellettuale. Non enuncia la perdizione, bensì il venir meno del riferimento ideale, dell’idea di padronanza, della sottomissione alla propria volontà di bene come sottomissione alla volontà dell’Altro. È una variante dell’anoressia.

La bussola non è lo strumento di riferimento, non serve a navigare in acque calme, a mantenere i propri privilegi, a restare in una comfort zone. La fede nella riuscita non è il riferimento all’ideale: solo se cessa questo riferimento al ghénos familiare, sociale, provinciale, spirituale c’è la chance dell’incominciamento e del debutto, della riuscita e dell’approdo. Nulla è scontato, predestinato, i giochi non sono mai fatti. E la riuscita non è stabilita dai presupposti, non è vincolata al “vale la pena”, non è un obbligo sociale, non è il raggiungimento della finalità annunciata: l’industria non ammette la logica militare, quella che molti consulenti aziendali vorrebbero applicare all’impresa, rifacendosi alle dottrine orientali dell’arte della guerra.

Per questo Moscatti ribadisce come sia importante per l’azienda stabilire e osservare le regole, ma sottolinea come sia ancor più importante la condivisione dei valori: “È più semplice mettere una regola che condividere un valore”. E ancora: “Se per ogni comportamento non conforme fissi una regola, dopo qualche anno avrai riscritto il Codice civile, e dovrai assumere poliziotti invece che ingegneri. La cultura è fondamentale nella gestione dell’impresa. I valori determinano gli atteggiamenti e quindi i comportamenti e questi influenzano grandemente i risultati”.

I risultati non sono gli obiettivi, non sono tangibili. Moscatti è un imprenditore, non un professore o un moralista, e dunque considera il progetto economico e il programma finanziario, si attiene al rischio e alla scommessa di riuscita, giunge alla scrittura del bilancio, anche del bilancio sociale.

Questo libro non parla dell’impresa ideale, non parla di come deve essere l’impresa ma di come fare, di come Moscatti abbia potuto trarre la sua nave all’approdo di ciascun giorno senza rovinare tra le mille insidie quotidiane. Per questo lo chiamavo manuale dell’imprenditore. Ma poiché in questo libro i risultati non si oppongono alla cultura, all’arte e alla società, ma le esigono, definirlo un manuale d’impresa è riduttivo: questo è un manuale di vita, un libro imprescindibile per ciascuno.

(Per gentile concessione della rivista “La città del secondo rinascimento”)