In questo forum (Rivoluzione digitale o rivoluzione dell’imprenditore?, 23 maggio 2017, Dipartimento di Economia, Unimore) abbiamo sentito parlare di tante rivoluzioni in ambito economico, fino all’attuale Industria 4.0. È indubbio che l’imprenditoria e l’imprenditore abbiano subito nel corso dei secoli un cambiamento profondo. Siamo anche tutti d’accordo che l’innovazione è stata la molla dell’imprenditoria e ha consentito agli imprenditori di perdurare nel tempo: coloro che non hanno saputo innovarsi sono finiti fuori mercato. Ma di quale innovazione si è storicamente parlato? Innovazione di prodotto, innovazione di processo, altri tipi d’innovazione, in cui poi alla fine ha dominato la variante tecnologica. E non è un caso che Industria 4.0 sia legata a una tecnologia specifica che da alcuni anni domina il mondo, non solo la vita delle imprese. Ed è indubbio che l’imprenditore, per sopravvivere, in qualunque settore operi, se non acquisisce una maggiore dimestichezza con la tecnologia dominante oggi e che dominerà nel prossimo futuro, rischia molto. Quindi, che l’imprenditore sia per forza di cose un innovatore è acquisito, non ci sono dubbi. Ma ciò che ci dice Armando Verdiglione, nel suo libro La rivoluzione dell’imprenditore (Spirali), è che la vera rivoluzione dell’imprenditore non è solo quella che ho descritto, sintetizzando, ma è anche una rivoluzione intellettuale; in altre parole, l’imprenditore del futuro dovrebbe conoscere e avere dimestichezza non soltanto con la tecnica del suo mestiere, ma anche con un contesto molto più ampio. La cultura e l’arte, a titolo di esempio, non dovrebbero essere più considerate, come sono state a lungo, estranee alla vita dell’imprenditore, ma devono coesistere nel suo intelletto, insieme alle conoscenze tecniche. Una buona mistura d’innovazione intellettuale e d’innovazione, chiamiamola tecnologica, per semplicità, sono forse il mix d’innovazione su cui la nobiltà dell’imprenditore e il suo permanere sul mercato si giocheranno in futuro.
Fatta questa considerazione, vorrei riprendere alcuni esempi tratti dal libro, che dimostrano che la vita dell’impresa – com’è stata descritta anche negli interventi che mi hanno preceduto –, nonostante possa avere questa prospettiva intellettuale di fronte a sé, ha a che fare con una serie di problemi concreti che sono di straordinaria attualità. Un rischio forte che corre l’impresa oggi, in Italia e nel mondo, è di essere dominata dalla finanza. E la finanza provoca spesso nelle imprese l’abbandono di cose, attività e prodotti giudicati non più utili dal punto di vista finanziario, ma che, viceversa, sono essenziali per evitare che l’azienda venga depauperata nella sua globalità. Quindi, attenzione a tagliare questo o quell’altro, nel momento ritenuto più o meno opportuno: prima di tagliare, pensiamoci tre volte.
La seconda questione, che è stata sollevata da diversi relatori, in particolare dal presidente di Finmasi Group, Marcello Masi, è la globalizzazione. La globalizzazione è stata vissuta per un paio di decenni come la grande chance dell’umanità, non solo dell’economia, essendo un processo globale, appunto, che ha una serie di implicazioni non solo economiche. Credevamo tutti – almeno coloro i quali hanno visto nascere questa parola – che fosse veramente il toccasana dei problemi. La globalizzazione ha avuto una serie di effetti indubbiamente positivi e non credo che si possa tornare indietro, ma forse la si può cambiare, perché quando si dice che, anche a causa della globalizzazione, ci saranno un numero crescente di persone sempre più ricche e un numero crescente di persone sempre più povere, e che il divario fra le une e le altre aumenterà a dismisura, allora, le prospettive dell’umanità non sono delle migliori. Cito la notizia recente di un amministratore delegato di una grande società italiana, che ha avuto una serie di problemi ed è stato più o meno cacciato con una buonuscita di otto o nove milioni di euro. Ebbene, con nove milioni di euro, campano migliaia di dipendenti di quell’azienda per enne anni. Può essere giusto, ma i dubbi sull’equità di un provvedimento del genere – come quelli che leggiamo sui giornali tutti i giorni, in Italia e nel mondo – sono pienamente giustificati.
Un altro problema sollevato nel libro è l’importanza delle dimensioni nella vita dell’impresa e, di conseguenza, l’importanza delle fusioni e delle concentrazioni. Una volta si diceva “piccolo è bello”, poi si è passati a “piccolo non è più bello” e oggi non è così chiaro come debba essere. Credo che definizioni così drastiche non reggano, perché ci sono imprese piccole bellissime e imprese grandi pessime. La differenza principale è che le prime possono fallire senza che nessuno se ne interessi, mentre le seconde hanno problematiche che coinvolgono un contesto molto più ampio: mi riferisco, a titolo di esempio, al caso di una grande azienda italiana operante nel settore dei trasporti che, se fosse stata veramente privata, sarebbe fallita enne volte nel corso degli ultimi vent’anni. La convinzione che i problemi dell’impresa possano essere risolti attraverso l’aumento delle dimensioni va vagliata caso per caso. Le famose economie di scala non si verificano necessariamente e, comunque, in quasi tutti i casi, al di là di certi limiti dimensionali, si trasformano in diseconomie. Bisogna verificare.
Il discorso delle concentrazioni va quindi esaminato con grande attenzione. Io mi sono occupato per tutta la vita di questioni bancarie: oggi la parola d’ordine per risolvere i problemi del Monte dei Paschi, piuttosto che della Banca delle Marche, dell’Etruria, della Carife o delle banche di credito cooperativo, è “concentratevi”, perché solo la concentrazione può risolvere i problemi. Ora, premesso che, come si diceva una volta, mettendo uno zoppo insieme a un altro zoppo, è difficile aumentare la velocità dei due, l’esperienza italiana insegna che, se incorporiamo una piccola banca cooperativa in Banca Intesa, la fusione funziona per forza, anche perché è un annacquamento di un piccolo patrimonio in un calderone molto più ampio, che peraltro in questo caso è la prima banca italiana in termini di redditività e di performance borsistiche. Quindi, anche il mito della concentrazione va, per lo meno, ridimensionato.
Il libro La rivoluzione dell’imprenditore insiste poi su un altro aspetto: occorre che i bancari divengano interlocutori degli imprenditori. Lo diciamo da cento anni. Quando insegnavo all’Università di Urbino (sede distaccata di Ancona), nella seconda metà degli anni sessanta, fui invitato a tenere una relazione sulle problematiche finanziarie nelle piccole e medie imprese. L’invito proveniva dagli imprenditori di Porto Sant’Elpidio, gli “scarpari”, come li chiamavano, che oggi sono leader mondiali del settore, a dimostrazione del fatto che non siamo fessi adesso, come non lo eravamo neanche cinquant’anni fa. Talvolta, mi capita ancora che m’invitino a parlare di quell’argomento e, avendo conservato il testo della relazione che preparai negli anni sessanta, lo riprendo, cambio alcune parole, aggiungo qualche termine inglese che adesso è indispensabile per dimostrare di essere all’avanguardia, ma l’essenziale rimane lo stesso. Il che non significa che i problemi non esistano, ma significa invece che si sono incancreniti nel corso del tempo e che forse addirittura il dialogo fra banche e imprese negli anni sessanta era migliore rispetto a oggi. È certo che, per una serie di motivi – fra i quali anche l’estrema rigidità della vigilanza, che ha imposto di fatto il razionamento del credito in Italia –, siamo ancora in attesa che vengano risolti.
L’ultima questione che affronterò, la formazione, è la conclusione della mia premessa sull’esigenza di un approccio intellettuale da parte dell’imprenditore. La formazione è un elemento fondamentale, che poi venga acquisita sulla base dell’esperienza, on the job, come si diceva un tempo, o con apposite azioni culturali e professionali, è irrilevante. Ma, se è vero che l’imprenditore del futuro deve essere l’innovatore intellettuale e tecnologico, è evidente che anche la formazione non può più limitarsi soltanto alle competenze tecniche. L’imprenditore è un uomo che vive nella società e per la società, oltre che per se stesso, e per questo deve conoscerla nel modo migliore e nel suo complesso, non soltanto nella materia specifica che riguarda il settore in cui opera.
Sono tanti gli spunti di riflessione che offre il libro e si potrebbe continuare a lungo, ma, per motivi di tempo, concludo qui.