Dopo un’esperienza di ricerca avanzata nel settore dell’automotive, in settembre 2021 lei è entrato alla G. Mondini. Con quale mandato?
Nell’azienda in cui ho lavorato per sette anni, prima di approdare alla G. Mondini, ho sviluppato – insieme ai miei colleghi dell’ufficio tecnico di pre-sviluppo che dirigevo – una trentina di brevetti, alcuni dei quali sono stati premiati, pubblicati e presentati a diverse conferenze internazionali.
In G. Mondini sono stato incaricato di strutturare un ufficio di ricerca e sviluppo che operi come un laboratorio di idee, da cui far nascere novità assolute sul mercato delle macchine per il packaging. Chiaramente, in un’azienda come la G. Mondini, con cinquant’anni di storia e una tradizione che ha fatto scuola nel suo settore, le idee non mancano: la proprietà sa quali sono le macchine di cui il mercato oggi ha bisogno e ha un’intera “biblioteca” di idee da sviluppare. Tuttavia, prima d’incominciare a lavorare intorno a un’idea, è essenziale il confronto con l’ufficio di business strategy, diretto da Davide Sartini. Poi, si passa alle due fasi successive: l’elaborazione del modello (inteso come scheletro di una proposta tecnica, non come modello CAD 3D) e la realizzazione del prototipo. Anche nella realizzazione del modello, seguiamo una strada innovativa rispetto a quella convenzionale. I nostri modelli CAD, per esempio, sono già predisposti per essere utilizzati con la realtà aumentata, inoltre, ci avvaliamo degli strumenti che offre l’innovazione sistematica.
Di cosa si tratta?
Sembra un ossimoro: apparentemente, un’invenzione non ha nulla di sistematico, anzi, spesso si pensa al momento dell’invenzione come quello in cui si accende una lampadina all’improvviso. Eppure, gli studi condotti dall’inventore Genrich Saulovic Altshuller, con l’obiettivo di catturare il processo creativo in ambito tecnico e tecnologico, codificarlo e renderlo così ripetibile e applicabile, hanno condotto alla teoria dell’invenzione nota con il nome TRIZ (acronimo del russo Teorija Rešenija Izobretatel’skich Zadač, traducibile in italiano come Teoria per la Soluzione Inventiva dei Problemi). Analizzando 200.000 brevetti, Altshuller si era accorto che tantissimi brevetti, anche di natura diversa fra loro, avevano in comune alcuni passaggi fondamentali, quindi si potevano costruire alcuni parallelismi. Grazie a questa analisi, è riuscito a catalogare ben quaranta principi che stanno alla base del processo inventivo e che consentono di esplorare il problema da diversi punti di vista su aspetti macro e microscopici, in fasi temporali differenti, anziché accontentarsi della soluzione più immediata, che è sempre la più facile, ma non necessariamente la più innovativa.
Quindi, partendo da un’esigenza del mercato, adottiamo una serie di strumenti, come il metodo TRIZ, per analizzare il problema da punti di vista differenti e ci confrontiamo costantemente fra noi per raggiungere il miglior risultato possibile.
In G. Mondini, c’è una memoria storica anche negli archivi, oltre che nelle persone?
Il nostro ufficio tecnico ha a disposizione un database con tutti i disegni delle macchine inventate e vendute fino a oggi. Stiamo lavorando anche per implementare l’archivio con il patrimonio di esperienza delle persone che lavorano in azienda fin dalla sua nascita, prima che vadano in pensione. Un’esperienza che è ancora più preziosa nella fase di realizzazione del prototipo.
In questo anno di collaborazione con la G. Mondini lei ha progettato una nuova macchina?
Appena sono entrato in azienda, Paolo Mondini mi ha lanciato la sfida di progettare una nuova macchina, chiedendomi di disegnarla senza fare riferimento a ciò che era stato fatto in precedenza. È stata una bella sfida, perché venivo da un settore completamente differente. Poi, quando ho abbozzato il primo layout, abbiamo iniziato a programmare incontri periodici con le persone che rappresentano la memoria storica dell’azienda e abbiamo messo a punto una macchina che è frutto dell’incontro fra le nuove idee e l’esperienza precedente.
In futuro vorremmo costruire lo stesso intreccio con il mondo accademico, attraverso un network in grado di darci stimoli e idee nuove, pur mantenendo ed enfatizzando la nostra tradizione.
Come si chiama la macchina che ha ideato lei?
Si chiama Cigno ed è una macchina di dimensioni molto compatte rispetto ai modelli G. Mondini più venduti. È la prima macchina in cui si può effettuare un cambio formato senza bisogno di attrezzi. Durante le visite in reparto produttivo, quando ancora dovevo essere assunto, Paolo Mondini mi chiese un parere su una delle macchine di maggior successo e io notai che c’erano troppe viti, troppi spessori e troppo acciaio: si poteva fare più semplice, più snella. “Allora, falla tu una macchina più semplice”, mi disse, spingendomi a osare. Il risultato è stata la Cigno, una macchina in cui non ci sono più alcuni circuiti che invece sembravano fondamentali, non c’è più un impianto del vuoto né un impianto d’aria compressa. Adottando soluzioni differenti, il cambio formato non ha più bisogno di “chiavi a brugola” o della “chiave del tredici”, è un’operazione che viene svolta in meno di un minuto e mezzo, con dei semplici click e in totale sicurezza: nessuno può estrarre lo stampo per errore, per un contatto accidentale. E questa caratteristica, che sembra banale, in realtà può evitare parecchi danni ai clienti perché, se l’operatore dimentica un utensile dentro lo stampo e avvia la macchina, non esiste un controllo che rileva la presenza di corpi estranei nella stessa macchina, la probabilità di un crash è molto alta.
È stata una bella sfida ed è stato bello portarla avanti in combinazione con l’esperienza della G. Mondini, un’azienda che non teme la trasformazione, anzi, l’ha sempre promossa, a maggior ragione adesso che è entrata la terza generazione, con Marco Brenna, nipote del fondatore, Giovanni Mondini. Cosa che non è scontata nelle aziende storiche, dove spesso, dinanzi alle proposte innovative, si risponde: “Abbiamo sempre fatto così, perché cambiare?”. La trasformazione porta con sé sempre un po’ di paura, è inevitabile. Di tutto ciò che è nuovo, spesso, si valuta prima l’impatto negativo piuttosto che quello positivo, fa parte della natura umana. Di fatto l’esperienza è qualcosa da cui trarre vantaggio, ma occorre fare attenzione alle possibili inerzie psicologiche. Siamo abituati a ragionare con gli schemi che si sono formati a partire da ciò che abbiamo imparato prima. Soltanto i bambini esulano dalle abitudini, ecco perché dobbiamo tornare a essere bambini.
La novità spaventa anche perché si crede che costringa a rinunciare a qualcosa. Ma l’abitudine è inaccettabile, è un tentativo di togliere la differenza e la variazione, che invece fanno parte della vita…
Spesso siamo vittime dell’abitudine e talvolta non riusciamo neanche a quantificare gli effetti: in ambito industriale, soprattutto nell’innovazione, queste abitudini sono catene che provocano veri e propri danni. Di conseguenza, bisogna imparare a individuarle e a catturarle, accorgendosi subito quando si sta cadendo di nuovo nel vizio dell’abitudine.