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A quali settori appartengono principalmente le industrie che richiedono i servizi di testing nei laboratori associati ad Alpi-Assotic?
I laboratori associati ad ALPI-ASSOTIC offrono un ampio spettro di servizi, dall’analisi degli alimenti al controllo dei parametri ambientali, alla caratterizzazione dei materiali, ai controlli distruttivi e non distruttivi per le industrie manifatturiere; i loro clienti, quindi, appartengono a tutti questi settori, dalla filiera agroalimentare alle industrie manifatturiere e c’è anche chi si occupa di sicurezza sul lavoro.
Che cosa è cambiato nei laboratori di testing con l’introduzione delle tecnologie digitali e in che modo tali cambiamenti hanno influito sui servizi che essi offrono ai vostri clienti?
Le tecnologie digitali hanno accelerato i processi produttivi e consentito una maggiore personalizzazione del prodotto slegandone in parte il costo dai volumi. Ad esempio grazie a tecnologie come la tomografia computerizzata e la stampa 3D è possibile passare dall’oggetto fisico a quello virtuale molto rapidamente, eseguire modifiche progettuali e ritornare dal virtuale al fisico. Ma anche il controllo di processo, grazie alla miniaturizzazione della sensoristica, sta diventando sempre più digitale. Per quanto ci riguarda, stiamo seguendo questa impostazione di crescente digitalizzazione dei processi di comunicazione con il cliente, dalla gestione delle richieste all’emissione delle offerte, all’organizzazione della logistica e dei piani di lavoro. Un’altra importante fase da affrontare è la gestione informatica dei dati prodotti dalle apparecchiature e in particolare l’interscambio di questi dati. L’interoperabilità è un problema da risolvere. Occorre poi prestare la massima attenzione alla sicurezza del dato, alla sua conservazione e naturalmente a preservare il sistema da possibili intrusioni non desiderate, e qui c’è tutto il tema della cybersecurity. Allora possiamo dire che la digitalizzazione costringe le aziende a dotarsi di competenze non esclusivamente centrare sull’oggetto della missione aziendale. Il funzionamento della rete informatica, la possibilità di digitalizzare i processi, con conseguente miglioramento della produttività e la sicurezza del sistema in termini di cybersecurity e business continuity, esigono competenze che fino a poco tempo fa non erano necessarie. Ora è essenziale capire quanto queste competenze debbano essere direttamente presenti in azienda e quanto invece possano ragionevolmente essere esternalizzate. Una cosa è certa, l’aumento della produttività ottenuto grazie alla digitalizzazione ha come contraltare un significativo aumento dei costi in termini di struttura informatica e competenze non direttamente connesse alla missione aziendale, ma che, tuttavia, rappresentano una parte importante della proposta di valore che i nostri laboratori offrono ai loro clienti. Prendiamo l’esempio degli investimenti in cybersecurity, che stanno diventando sempre più rilevanti: il rischio, reale, è che il mercato non riconosca l’investimento in cybersecurity come proposta di valore distintiva, ovvero la dia per scontata, senza nemmeno verificarla, avvantaggiando così quei laboratori che non si curano della sicurezza informatica propria e dei propri clienti. Quindi un tema che si pone ai laboratori che intendono digitalizzare i propri processi è anche quello di come valorizzare tali investimenti nei confronti del mercato; non può essere solo questione di migliorata produttività, occorre comunicare e farsi riconoscere dal mercato gli investimenti in cybersecurity e business continuity, non in termini di maggior costo del servizio, ma in termini di preferenza accordata.
Quanto sono attrattive le industrie italiane per i talenti provenienti dall’estero?
Non credo proprio che l’Italia sia un paese attraente per i talenti di altre nazioni e questo è piuttosto sconfortante. Abbiamo imprese eccellenti in ogni settore, alte tecnologie e non manca certo l’innovazione. Ma credo che uno dei fattori limitanti, oltre alle politiche del lavoro che rendono poco appetibili gli stipendi in Italia rispetto all’estero, sia relativo alla dimensione delle imprese. Fatte salve poche imprese di grandi dimensioni e con un brand riconosciuto a livello internazionale, la struttura produttiva è basata su piccole e medie imprese, e queste non solo risultano meno attrattive per i talenti esteri, ma fanno anche più fatica a proporsi a livello internazionale. Con alcuni paesi scontiamo poi un differenziale retributivo che rende ancora più arduo attrarre talenti.
La globalizzazione, soprattutto a partire dagli anni novanta, ha comportato la delocalizzazione della produzione dove il costo del lavoro era inferiore. La regionalizzazione delle filiere, invece, ha interessato i paesi europei, nei casi in cui, per esempio, un’automobile venduta da una casa tedesca agli Stati Uniti molto spesso utilizza componenti fabbricati in Italia. Che cosa pensa della globalizzazione?
Penso che in diversi casi un’eccessiva fiducia nella globalizzazione abbia portato le imprese a sbilanciare la propria supply chain delocalizzandola nel Far East, togliendo mercato alla subfornitura italiana ed esportando tecnologia, contribuendo così a crearsi anche competitori globali. Ne valeva proprio la pena? Era, è, questo il modo migliore per guadagnare margini di profitto? Forse in qualche caso, certamente non in tutti. Ma mi piacerebbe che a rispondere fossero le industrie che in questi giorni stanno attendendo componenti provenienti da Cina e dintorni.
Non abbiamo materie prime made in Italy, se non facciamo squadra tra le poche grandi aziende e le tante che operano lungo la catena del valore, credo che il Made in Italy ne uscirà sarà piuttosto annacquato, magari a favore di un Made in Germany ricco di componentistica italiana.
In seguito alla pandemia prima e alla guerra in Ucraina ora, nota una tendenza al reshoring da parte delle industrie italiane? In quali settori in particolare?
Mi collego alla risposta precedente. Magari potremo assistere a un certo ripensamento nell’organizzazione della catena di subfornitura, interpretando in modo diverso una globalizzazione che sarà molto meno globale negli anni (decenni?) futuri. Avrà senso delocalizzare per servire mercati locali, ovvero, produco in Cina o in India perché voglio servire quei mercati e non unicamente per avvantaggiarmi di un minor costo del lavoro. Credo inoltre che ci sia da ripensare questa delocalizzazione anche da un punto di vista strategico. La Cina si avvia a diventare la prima potenza industriale del mondo. Portare produzioni a elevato contenuto tecnologico in Cina significa esportare tecnologia gratuitamente e far crescere là i propri competitori globali di oggi e di domani. L’occidente dovrebbe ripensare la propria politica industriale anche in chiave strategica e non solo liberistica. Da anni le aziende ripetono come un mantra che le persone sono al centro della loro attenzione. Ci credo, non lo discuto, il punto è “al centro dell’attenzione” per ottenere cosa? Cioè qual è lo scopo finale dell’investimento nel capitale intellettuale? Abbiamo cura dei collaboratori, offriamo posti di lavoro confortevoli, ci preoccupiamo della formazione continua e anche del welfare a quale scopo? Assicurare una crescita continua dei ricavi e dei margini? Non può essere solo questo. La visione industriale va rivista in termini strategici che tengano conto dei valori insiti nei nostri modelli sociali e democratici e li proteggano. Credo che la pandemia prima e la guerra in Ucraina adesso abbiano reso abbastanza evidente questa necessità di ripensamento strategico.